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  donne, lavoro, preghiera, uomini, bambini 
in viaggio 
 
 
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  In viaggio 
Spostarsi non è solo una condizione fisica. Certamente, in quanto tale, è gravata da difficoltà materiali, dai bagagli al mezzo che si utilizza, al clima. Ci si sposta tra le sabbie del deserto, sull’acqua con imbarcazioni improvvisate, nella steppa, su strade malconce e con mezzi di fortuna.  
Ma c’è un’altra implicazione nello spostarsi ed è quella meno accessibile agli occhi. Perché coinvolge la mente e lo sprovveduto osservatore non l’avverte. 
Un vecchio detto recitava: partire è un po’ morire. Nei miei scatti non è sempre visibile. Trova la sua collocazione solo in un parte di essi. La famiglia che si separa a Rabat, una madre e i suoi bambini alla stazione di Topkapi di Istanbul.  
Io ho voluto parlare anche di un altro viaggio, più intimo: lo spostarsi che accompagna il lavoro, quella parte del nostro quotidiano che richiede trasferirsi dalle proprie cose per immergersi in altre. A volte, è’ un tempo avvolto da un brandello di noia, faticoso come spingere un carro stracolmo di masserizie, non importa che si sviluppi tra poli distanti o vicini tra loro, perché, comunque sia, è colmo di speranza, di aspettative, di sforzo, di pena, di stanchezza. A Kyoto si può essere sopraffatti dal sonno come a Tokyo può servire per ripristinare il trucco degli occhi, su un autobus del Tamil Nadu a raccogliere i pensieri.  
C’è un filo che lega chi intraprende un viaggio a qualunque titolo. E’ la fatica che fa il cuore ad immaginare che ciò che verrà, sia esso un compenso, sia un nuovo orizzonte, possa essere risolutore delle proprie angosce.  
Mentre scrivo, giunge l’eco di popoli migranti, via dalle guerre, dalla fame, ma anche e, soprattutto, dai propri cortili, dove non sempre ritornerà e, se mai succedesse questi sono spazi che, durante l’assenza, hanno perso l’odore che s’è lasciato.  
Stefano cotone 
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