il  lavoro: la fatica dell' uomo   
 
 
Il lavoro: la fatica dell’uomo 
Ci sono due maniere di lavorare: ridendo o soffrendo. Ho visto donne nei pantani a riso dell'oriente, in Vietnam, in Indonesia con la schiena curva e le ginocchia nell'acqua, arrivare a sera stanche e coi cuccioli appollaiati sul  fianco, rientrare in fila indiana lasciandosi alle spalle  le lastre d'argento dei campi. Ho visto uomini sconnessi dalla fatica arrampicarsi per i dirupi andini, a malapena vestiti, trascinando sulla schiena immensi cofani di vegetali. I fabbri, lavorare d'ingegno alla forgia  o ribattere chiodi di rame i vasai tornire l'argilla e le donne tessere e filare. Ho voluto vederli e rivederli per cogliere che la misura della sofferenza, a volte, è solo l'aspetto più visibile. perché accanto a questo modello di lavoro, ormai così lontano dalla nostra concezione, c'è la festa, anch'essa altrettanto lontana. Da noi, nessun bancario ha mai c3elebrato la miliardesima banconota che ha frusciato per le sue mani, per il semplice motivo che non gli appartiene. Né l’operaio è mai riuscito ad amare sufficientemente quell’angolo di fabbrica, per quanto sterilizzata, dove passa le sue ore contrattualmente definite. E c’è una ragione: il fabbro del Rajastanè riconosciuto per la sua opera e nel suo campo è un maestro come il tessitore di tappeti o il fabbricante di vasellame. Il commesso del grande magazzino o il turnista no. Sebbene questi lavorino in condizioni migliori, con istituti di protezioni determinati per legge, diritti acquisiti o logiche di carriera, in realtà arano nervosamente la terra per altri che mieteranno il raccolto lasciando loro qualche briciola di ricchezza e, più spesso, magazzini colmi di frustrazioni e malessere. Le immagini raccontano la vita quotidiana di uomini e donne di quel mondo apparentemente così disperato affinché il’osservatore colga che la fatica non è l’aspetto più temibile del lavoro. 
 
 
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