Piccola nota dell’autore 
 
C’era una banda di bambini           C’era l’odore del frangipane              Bimbi e papà vestiti a festa 
Con strumenti di bambù                 Una gardenia rossa e blu                    Neri, piccoli ed indù 
Che suonava per la strada              Malinconie di terre lontane                Pure una mamma con la cesta 
Bibidi, bobidi, bibidi, bù                  Bibidi, bobidi, bibidi, bu                      Bibidi, bobidi, bibidi, bu……………. 
 
Se penso all’Indonesia mi viene in mente questa filastrocca, pensata per caso nel vedere una banda  di bambini per strada nel villaggio di Lobe, mentre, appunto, con strumenti di bambù, suonavano. Anche il direttore  d’orchestra era un bambino che, saltellando dentro i suoi pantaloncini corti, dava il tempo ai suonatori. Anche se  l’Indonesia è Borobudur, io non riesco, quando ho la macchina caricata in B/N, a pensare ai monumenti, nobili per quanto possano essere. Penso piuttosto all’anima del Paese e, questa, è fatta di sguardi e di gesti, di sveglie date da merli indiani o muezzin indonesiani. La mattanza dei Toraja, i bambini che, come fiori, accompagnano le madri nei campi e aiutano nelle risaie, altri che giocano silenziosi sotto l’albero dentro il quale sono immersi i corpi dei piccoli morti fagocitando i quali, l’albero li conserva in una tomba vivente. Un conducente di rikshow, qui chiamato bejà, dal nome della casa che li costruisce, aspetta indolente, immerso nell’umidità di Jojakarta, che qualcuno gli chieda di muoversi. Una smorfiosa puttana nel porto di  Surabaya ciondola il suo corpo invitando clienti inesistenti. Sul finire della quiete geografica di Giava o di Celebes, il frastuono di Bali, e le tante guerre dimenticate di Timor, Irian e lo scempio di Sumatra. 
La storia di questo Paese è anche Panataram, Prombanan, antichi ricordi Indù e una miriade di altri resti collegati alla civilizzazione indiana ma con differente carattere antropico. A Sukuh, templi e figure ricordano i luoghi Maya ma, un grande, litico, Lingam shivaita, ci riporta al continente dirimpetto. Un enorme fallo di pietra su cui provavano le vergini, per vedere se lo erano ancora e, dove pare, che la pratica si estendesse alle casalinghe in odore di maialate. 
Attraversiamo una natura prorompente in forma di valli, boschi e risaie appese alle montagne, di villaggi euritmici, di uomini artigiani e di mondine al lavoro. 
 
A Surabaya, al molo di Kalimas, grossi barconi in legno con doppia timoneria a pale, stracolmi di merci ormeggiate uno accanto all’altro. Dondolando su un lungo asse di teak sono a bordo. Mi dicono che questa archeologia marina senza alcuno strumento, queste navi, solcano i mari della Sonda verso Timor, Flores, Kalimantan e Sulawesi. Al porto, come in tutti i porti, stazionano ridicoli travestiti e patetiche puttane. 
A Salu, nel Tana Toraja, c’è un funerale. E’ una cerimonia cruenta. Fino all’inizio del secolo questa,  si svolgeva sulla pelle  di qualche servo razziato nel villaggio accanto. Oggi a farne le spese sono maiali e bufali che vengono sgozzati, squartati ed arrostiti nel cortile del villaggio. Lo spettacolo è impegnativo. Gli animali sentono la morte e ne odorano l’approssimarsi. Il bufalo viene colto di sorpresa da una violenta sciabolata che gli recide la gola lasciandogli penzolare, attaccato per i muscoli della cervicale, il capo. Si impenna urlando, poi la montagna di carne si abbatte per terra tra i resti degli animali già sacrificati, dimenandosi. Non viene aiutato a morire. L’imponenza dell’animale ed il suo muoversi scoordinato, impedisce agli uomini di avvicinarsi; mentre continua ad urlare è evidente il sangue che, copioso, sgorga dalla profondissima ferita. La testa, staccata per metà, si muove indipendentemente dal corpo, rendendo lo spettacolo più raccapricciante. Sfinito, viene avvicinato da qualcuno che infila nello squarcio un grosso bambù per raccoglierne il sangue. L’addome e le zampe hanno ancora dei fremiti. Intorno, il prato è colmo di stomaci svuotati, mucchi di erba parzialmente digeriti, brandelli degli animali sgozzati precedentemente. L’ambiente è saturo di un nauseabondo puzzo e di mosche. La bestia appena uccisa ha atteso, tra gli odori della morte, la sua fine. Viene condotta a forza: piccoli spostamenti che, attraverso gli zoccoli, sente come ultimi nel calpestare ciò che rimane degli altri. Non ancora morto ma completamente dissanguato, viene macellato iniziando con la lacerazione dell’addome e lo scuoiamento. Rivoltato su se stesso è completamente spellato mentre i muscoli del collo sono ancora sotto stress. Il biancore della carcassa, il pannicolo adiposo, che appare sotto la pelle rozzamente scollata dai colpi del machete, viene aggredito dalle mosche. Adesso verrà squartato. Nello stomaco, assieme all’erba, un telo di plastica mal digerito. Il ricavato dei pezzi di carne, venduti in una sorta d’incanto al migliore offerente, sarà il pedaggio che il morto paga alla cristianità che si è impadronita del suo Punia, il paradiso Toraja.  
 
A Suaya, le tombe cariche di tau-tau raccontano un’altra storia, un po’ fantastica, un po’ interessante. A Sayon c’è l’abitudine di deporre i corpi dei bambini in una caverna e, a Sarapun, i piccoli, morti prima della dentizione, vengono sepolti in una nicchia ricavata in un grande albero vivo. Questo, nel tempo, fagociterà i corpicini chiudendosi su di essi.  L’idea è molto tenera, il luogo muove tante, commoventi, riflessioni. 
Sull’isola di Bali due cremazioni si svolgono su delle radure tra alberi spaventosamente grandi. Non c’è niente di lugubre, sembra un pic-nic. Il sacerdote pazzamente abbigliato, recita qualcosa e spande acquasanta. La musica Gamelan accompagna la cerimonia. I parenti, riuniti in clan familiari, vivono la circostanza in maniera del tutto rilassata. Di primo acchito sembra che qui, la vita o la morte che sia, non venga affrontata ma vissuta, come si guarda un albero crescere, il ritmo sempre costante del dì e della notte insomma, apparentemente, così come mancano le stagioni, mancano tutti i passaggi e, con essi, tutte le interruzioni traumatiche che viviamo noi nelle nostre polverose città, tra i musi lunghi dei condominii, il tempo scandito dalle ore e, ad ogni ora, una scadenza come un romantico, o angosciante, disco orario della vita.  
A Nusa Dua, dal tempio di Ulu Watu, a picco sulla falesia lo sguardo domina il mare a occidente. Ai piedi dell’orrido, le onde lunghe si frangono sulla spiaggia disseminata di  scogli. Il belvedere è abitato di scimmie che confidano nell’elemosina dei turisti. Quando il sole comincia a spegnersi, si sente il silenzio squarciare la magia  del luogo. La nostra stella affoga nel mare e, tutto, miracolosamente si tinge di ogni colore del rosso. Le barche dei pescatori rientrano silenziose a gruppi, scivolando sulla strisciata metallica che l’ultima luce del sole lascia sull’acqua. 
 
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