IDEE, UOMINI & COSE  
Ci sono pochi modi di concepire la vita in Cina da parte dei cinesi: Bei, Nan, Dong, Shi, Shang, Scià: nord, sud, est, ovest, su, giù. Due parole che le comprendono tutte: feng — shui. Significano acqua e vento. Una, ne è la sintesi: armonia.  
Quando ero bambino sentivo spesso ripetere quelle due parole con qualche aggiunta: acqua davanti e vento da dietro. Era un vecchio ricordo di marina. Di una marina finita poco dopo Cristoforo Colombo, quando ancora si pensava che a far andare le navi fosse il vento di poppa e, ed era un augurio, che davanti ci fosse acqua, non scogli. Allora, ciò che sapevamo della Cina era avvolto dalla nebbia. Una nebbia gialla, minacciosa, che metteva a rischio la nostra libertà. Valenti e liberi giornalisti non si facevano in quattro per parlarci di quel popolo, di quel Paese. Del continente giallo (la Cina è vicina) non conoscevamo gli Han, i Tang, i Ming e gli ultimi Qing, ma sapevamo che passavano col semaforo rosso perché, l’assurdo di quel sistema (che non era il nostro, fortunatamente!) considerava questo colore l’avanzare e non l’arresto. Sapevamo anche della povertà (o miseria?) in cui versava quella gente: poveri lavoratori senza futuro, costretti come formiche a produrre per il benessere di pochi neo-mandarini, vestiti tutti uguali con tute blu e coppola. La nostra classe operaia che grazie al contributo filantropico del sindacato era in marcia verso il Paradiso, guardava con commiserazione i gialli che, a bordo delle biciclette, non potevano sognare una, seppur piccola, seicento.  
Così, mentre qui proliferavano le prime vetturette e fiorivano le prime cambiali, piccole e felici ipoteche sulla nostra vita quotidiana, in Cina, bandana rossa in testa, si facevano le rivoluzioni. Verde, rossa, bianca, e tutti i colori dell’arcobaleno.  
Così fino alle Olimpiadi di Tien An Men, la grande porta del cielo. Un uomo con sacchetto della spesa, si para davanti ad un carro armato, dispotico segno di un potere misteriosamente in mano ad una banda di efferati sanguinari, e lo costringe (il carro o il potere?) ad un minuetto davanti agli occhi del mondo. Ma il mondo non ricorda un’altra Olimpiade svolta in un grande Paese democratico: il Messico. A Tlatelolco non c’era la televisione, non c’erano inviati più o meno speciali, così nessuno, passando per la piazza delle tre culture, oggi si sofferma su una stele con i nomi, età e sesso di seicento morti ammazzati dalle mitragliatrici di un governo che fa passare le auto col verde. O a Seul, oppure a Bangkok, sempre studenti, sempre morti ma si passa sempre col verde in metropoli che non hanno mai considerato il nord, il sud, l’est ecc. Dove l’autorità, che arriva prima durante e dopo la battaglia prende a calci i feriti, ma in piena libertà.  
E’ la terza volta che passo per la Cina. E vedo che da qualche tempo, li abbiamo convinti che il feng-shui è una perdita di tempo. Abbiamo contagiato i gialli con la nostra impazienza, coniugando la vecchia armonia orientale con la nostra attesa frettolosa. Attesa che lo stiramento delle palpebre porti via quell’antiestetica plica mongola che li rende così diversi. Che quella anacronistica tuta blu, che li faceva così uguali, sia sostituita da un’altra tuta, ma griffata. Che a quel cigolio tra catena e rocchetto di silenziose biciclette per le vaste e pianeggianti città, si sostituisca il benefico gas di scappamento di allegre automobili, magari una per ciascuno. Che la ricca polpetta di manzo rimpiazzi la monotonia dello chow mien, e che il luogo dove ballare, quella frustrazione verticale di un vecchio desiderio orizzontale, accenda le sue luci all’ombra delle quali, finalmente, poter consumare il proprio sano, legittimo bisogno di estasi.  
A Shang Hai come a Xi’An o a Nang Zhou, arditi architetti, non sufficienti machi per essere ingegneri né abbastanza gay per essere stilisti, hanno pensato bene che all’armonia del bei e del nan si potesse sostituire una più concreta disarmonia di vetro-cemento, che si aprisse ai nuovi bisogni dei cinesi che pagano oggi i prezzi dell’anno prossimo con gli stipendi dello scorso anno.  
Nello Yunnan cinese, sembra che suoni una musica diversa da quella dell’altra Cina. E’ fatta di uno strumento monocorde che sa di campi coltivati a riso, del sapore dello zolfo della polvere di litantrace impastata in formelle da bruciare, di odoroso letame, accatastato ai bordi degli udong, pronto per concimare orti a verdure e del blu intenso dei costumi degli Yi, Miao e Bao. Un pezzo di Cina rurale, villaggi di fango e tetti le cui tegole, connesse tra yin e yang, ricoprono pareti domestiche il cui accesso è protetto, a sua volta, da una porta decorata da ideogrammi di buon augurio tra un violento rosso Ming.  
Dali, Wei Shan, Lijang, piccole oasi architettoniche decorate di tramonti ambrati, silenziose passeggiate tra ceramiche e bronzi appena sfornati mucchietti di falsi intinti nella nafta da invecchiamento dai quali spunta, per qualche palato esigente un Budda di cinque leghe, un tappeto Shi Zhong, un vaso armonico, un bracciale thang del Guinzhu. E tanti, colorati, ricamati con un finissimo decoro in seta o in più domestico cotone, grembiuli e spallacci portabimbo di stile Miao ed Yi.  
Come stai ad Hong Kong? Come stai tra i grattacieli di cristallo della Deux Veux, a bordo di tram piccoli come in una giostra per bambini, tra i condomini fatiscenti di cinquanta piani di Hollywood, ti parli ancora col vicino malese, filippino o bengalese che cambia faccia tutti i giorni mentre si affaccia sul tuo balcone, come fai tu sul suo, tra canne di bambù di panni stesi? Come stai tra le bancarelle di Kowloon o a bordo dei sanpam di Abardeen? Io ti ho vista schizofrenica. Due facce: una che spinge l’altra a cambiare; una che resiste all’altra perché non vuol sparire.  
Hong Kong, con quella faccia da cinese, con quegli occhietti semichiusi, tu mi parlavi concitata, io non capisco ………..Poi sono sceso a Central Park, o forse no, quella è New York, ma la Queen’s è poi tanto diversa da Canal Street? Odore di spezie e di ramarri secchi, avorio di mammouth e falsi d’autore, tutta una umanità straniera sdraiata in un grande pic-nic nei passaggi pedonali e un’altra umanità in quel fuori-porta di Victoria Peak che domina una baia di palazzi. Oggi, domenica, si può vedere dall’alto, tra l’uggia che s’affaccia, il lavoro del giorno dopo.  
Ma la sera, a Kowloon, un belvedere di facce sconosciute, tutte attente a guardare luci e luci di un profilo che si riflette sul mare.  
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