Basta foto, te lo chiedo per favore 
 
Ho perso il conto da quando, poco più che ragazzo, in quell'angolo di Sha-ri-now, a Kabul, o come la chiamavamo noi 'chicken street' aspettavo, tra yogurt e fumo, che l'ambasciata mi rilasciasse il visto per l'India e, da lì, per Katmandu. Tamel non era un quartiere di Las Vegas, le luci delle insegne non avevano motivo per esserci. Ma la città stava in piedi. Oggi, un monsone dopo l'altro comincia ad eroderla e diventa sempre più rischioso dormire sotto gli sporgenti dei tempi di Durbar square. Il giorno dopo il mio arrivo, infatti, una bella fetta di tempio si sbriciola nella notte sotto il peso della vegetazione spontanea e dell'acqua che ormai invade le gallerie che tarli mascellosi hanno creato nelle travi. Fortuna che la morale dei famelici insetti (o forse il senso della storia) ha risparmiato begli esempi di arte ligneo-erotica che, ora, si mostrano da terra nei loro inverecondi amplessi. E via con le foto. 
Ma, a dispetto del tempo, Katmandu è ancora lì. Muri di mattoni, forati da finestre da cui non passa il sole, legno dai disegni a prima vista confusi ed esasperati nella geometria; la 'desumaragia', l'unica finestra al mondo che ha un nome, letteralmente: non ce n'è un'altra uguale,.Ed è facile crederci. Il filo a piombo spesso è un'opzione che qualche artigiano costruttore sperimenta di tanto in tanto ma che la norma considera forse una contaminazione nella tecnica edile.  
 
Si comincia con il pellegrinaggio a Dakshinkali. Ma oggi, stranamente, solo un pollo e un capretto. Riposti sotto l'ascella di qualche fedele, ascoltano inconsapevoli, sotto le carezze che li accompagnano al sacrificio, le ultime raccomandazioni da portare a Kali. E giù, foto. A Kirtpur, ormai cosmopolita, si parlano tutte le lingue ed è chiaro che nell'Università locale si praticano intensi studi sul linguaggio non verbale: fermati, riconosciuti ed intervistati nella vostra lingua qualunque essa sia dall' ugrofinnico ai diletti di origine bantu sudanese. La mia pelle araba, la  faccia da Sick, la mia statura da cingalese, il  gesticolare siculo ed infine il mio sguardo penetrante da Sean Connery ultimo atto li disorienta e mi salvo. Mi salvo dalla trappola che, come ragni da tela, falsi studenti ma veri rompiballe tendono ad ogni angolo al costo 100 Rupie, e si risparmia sulle foto. Swayambu, al pomeriggio è un appuntamento. Scimmie, tromboni, monaci e mercanti attorno ai sette cieli di Budda e io fra loro per la foto di rito, prima che sia troppo tardi per sorridere ancora. Piove, vacche, bambini tra fango e petali di fiori. 
A Chitwan il fiume è grosso: Un gruppo di ragazzi sorreggono sopra il capo una moto che il proprietario cerca di salvare dalle acque come Mosè. Più a valle, i resti carbonizzati di un corpo umano sono aggrappati come fosse un vecchio straccio ai rami rinsecchiti e morti di un albero che la piena ha sradicato. Cosa  avrà mai fatto per meritare un tale karma?  Grassi elefanti, molli mezzi di trasporto, affondano nel fango. Un serpente cerca di forare una zampa al pachiderma ed il povero si imbizzarrisce come una donnina davanti ad un topo. Forse non vedrò la tigre, forse i rino sono ragionieri occidentali senza lavoro travestiti part-time, forse c'è anche la corrente elettrica nei lodge e, forse, anche le zanzare sono in affitto, ma il tramonto, quello non può non essere vero e non bastano due occhi per guardarlo in mezzo a tanta pace. Peccato per la foto col sonoro che non ci sia. 
A Gorka una frana sbarra il cammino mentre rientro a Katmandu. La montagna viene giù scivolando sui resti della carreggiata anch'essa sbriciolata dalla massa di fango e detriti. Da un lato e dall'altro si raccolgono uomini, mezzi e masserizie. Tutti guardiamo la pioggia di sassi, sotto una pioggia di acqua. 
La valle, in basso, è verde di risaie; le montagne in Nepal si muovono come i fiumi che scendono a valle in cerca di quiete e, vivere, è aspettare il momento in cui qualcosa si ferma. 
A Patan piove che Shiva la manda e le foto rimangono nei rulli. E' La seconda volta che ci provo. La prima: la città era invasa da una folla di credenti nel Krishnastami, il natale di Krishna; ma a completare l'opera c'è stato l'arrivo del re tra ali di boy-scouts, dignitari, fotocamere e scolaresche. Il re si fa attendere e la città si ferma. Al suo arrivo, il bramino lo unge con gli oli santi per dargli la grazia della puntualità. Il popolo è commosso e assale il tempio come una mandria di topi di allevamento. La fede è solo un lontano ricordo dei tempi dell'oratorio.. 
C'è Baktapur, leoni di sasso che guardano impietriti turisti in gruppo ancora per una foto di gruppo, mentre attorno la festa continua per tutta la notte tra danze e giocolieri, luci di torce e bicchieri di chai.  
E poi il giro dei sepolcri. Budanilkanta: il sacerdote lava il viso di Vishnu, versa tra le labbra il latte, pone sul capo una collana di fiori. Riti semplici e magici e tra una formula e l'altra, una foto. Il monolite adagiato sulle spire di Ananda, riposa sull'oceano cosmico della piscina. I fedeli aspettano il loro turno per accarezzare le dita dei piedi. Una madre flette la testa del suo bimbo affinchè possa baciare l'estremità di quell'immobile sasso; ripeterà quel rito per tutta la vita e lo trasmetterà ai suoi figli? A Pashupati si preparano le pire. Indù e buddisti vengono cremati sugli altari dello stesso fiume. Quattro uomini portano una barella con un fardello avvolto di bianco nella loggia dei morti. I parenti attendono alle cerimonie del sacerdote. Suoni lenti e lamentosi accompagnano la salma. L'addetto trasporta la legna scaricandola, con la violenza della fatica, sull'ara. Un altro, compone, scegliendo accuratamente tra i grossi ceppi, la pira. La lentezza estenuante dell'operazione segue una pratica che dall'esterno non è comprensibile. Il taglio delle dita che indossano anelli è un gesto di estrema purezza, ma noi lo viviamo come un oltraggio. A Dio, ci si presenta nudi. Un ragazzo, tra le fitte del cuore, dà fuoco alle fascine e un fumo umido si spande nell'aria. Amore e speranza, sollevate dalla terra che non accoglie l'impurità di un corpo in decomposizione che pure le conteneva, riprendono il samsara fino ad annullarsi nella pace. 
A Bodnath, il grande Mandala bianco di calce e verde di muschio, i tibetani pregano in un'altra lingua. Sacro dei sacri, gli occhi di Dio, azzurri e penetranti, affondano dentro l'anima del pellegrino che accarezza i mulini di preghiera che cigolano sotto le sue mani. Occhi di cielo, che ti portano in cielo. 
A Durbar square, quando la luna tramonta, sulla scalinata del Mahadev, rimane il sorriso, silenzioso e disarmato del viaggiatore con gli occhi pieni di sadhu e bambini, le narici colme di incenso ed un tika rosso sulla fronte arrossata di sole. 
Ma stavolta niente foto. Basta, te lo chiedo per favore. 
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