INDOCINA 
Favola, uomini e cose 
 
Una volpe corre, in una domenica ……Incontra un tasso, intento a farsi una canna e, trafelata, gli dice: 
- Tasso, lascia quella robaccia e vieni con me a correre nell’aria, non perderti in cose che non hanno più senso.- 
Il tasso, perplesso, si accoda lasciando il suo da fare. Ma poco dopo i due, ansimanti, incontrano uno scoiattolo che prepara la polvere per il suo naso. 
- Lascia tutto, è bella la vita, corri con noi, rifatti i pensieri…..- 
I tre incontrano un lupo; anche costui, siringa e cucchiaio prepara il suo sogno.  
-Butta via tutto, respira con noi, siamo un bel gruppo…. 
Ma, al quarto animale, ripetuto l’invito, arriva un rifiuto. Quest’ultimo, guardando i soggetti agitati nel benessere della loro fatica, risponde: 
- Ma perché tutte le volte che la volpe va in extasi, la seguite come burattini? 
Non voglio parlare del Laos, né della Cambogia. Né del Vietman o della Birmania e, men che meno di Bangkok. Altri, più attenti di me ai tramonti, o albe che siano, al Mekong, ai boschi di sipal , ai colori del rododendro o alle strade dissestate, lo fanno. Lo hanno fatto meglio di me. 
Vorrei parlare di Muhot (ma chi era Muhot?), dei cadaveri di teak allineati ai bordi della carreggiata o flottanti sul Irrawady, dei locali di Le Loy, dei ladri di Cholon e delle tenere, tenerissime, puttane di Surawong, fragili creature trasferite dalle paludi di  Chang Ray alle luci dei klong Bangkok. Vorrei parlare di Angkor, ma non quella di Muhot (ah, ecco chi era Muhot!), bensì quella di Lon Nol, come pure delle risaie (ma non quelle di Chang Ray) bensì quelle di Choeung Ek, alle porte di Pnom Phen. 
No, non so, non ricordo i prezzi dello chow mien di Yangoon, se era più ricco di quello, forse più saporito, di Qui Non. Né ricordo dell’acqua calda e fredda dei rubinetti invertiti di quel pessimo hotel (dov’era, poi?), sotto un pioggia battente i rumorosi tetti di lamiera accanto. O i topi, o tanti insetti, convitati silenziosi di quell’alloggio o di quell’altro. No, voglio abusare di questa ospitalità per dire la mia sull’Indocina. E su di noi che, con l’Indocina, abbiamo fatto Storia e tante, purtroppo, tante storie. 
Ba Phanom, un villaggio di tessitori ai bordi di Luang Prabang. Due donne, eleganti e di una bellezza dolce, come da tempo, da noi, non si vede più neanche sui manichini delle vetrine di abbigliamento femminile, ci invitano coi gesti di lunghe braccia sottili, ad andare dal fransè. Per farsi comprendere meglio, ci accompagnano loro, salendo sul nostro mezzo. Giungla, poi per un sentiero, giù per la scarpata che conduce al fiume. Ed ecco il fransè: una tomba, bianca di calce ed una targa nera: Henry Muhot, ecc. Accanto, un capanno ed un registro, povero di firme e gonfio di umidità. Muhot: chi era costui? Lontano miglia di spazio e qualche secolo di tempo, giace Muhot. Perché la mia insegnante di storia non mi parlò mai di Muhot? Perché, piuttosto, era occupata a parlarmi di Bixio (tacendo sui morti di Bronte), di Cadorna, l’eroe di Caporetto, di Umberto (e i cannoni di Bava Beccaris), di suo figlio Vittorio e di tutte le sue guerre, e di Crispi, e di …ecc. Ma Muhot non era Italiano, quelli con la I maiuscola e la retorica minuscola. Però mi parlò (e assai) di Napoleone, della sua gloriosa ritirata sulla Beresina (a proposito, dove finì il suo esercito di eroici ragazzi?) e di tutte le altre guerre e, mi sbaglio o le brillavano gli occhi di gioia nel ricordo di quanta carne umana, l’Imperatore, trasformò in concime nei campi di mezza Europa.  
E Muhot? No, Muhot non ha una tomba di granito rosa a Les Invalides. Tomba di faraone, souvenir di morte. Perché Muhot, una battaglia la fece, e fu vittima della sua battaglia. Guerra, fatta di mille battaglie i cui generali si chiamano anche  Darwin delle Galapagos, Watson e Crik degli acidi nucleici, Hiram Bigham del Macchu Picchu, Shweitzer di Lambarenè e altri ancora. Quella fu guerra; guerra incruenta contro la cecità, scontro tra ignoranza e conoscenza. Finestre che si aprono sulle cose, sugli altri, e sulle loro civiltà. Perciò Muhot, in una società sclerotica ed esclusiva come la nostra, non merita il Pantheon. Come gli altri, negati anche alla toponomastica di vicoli che, come dita ossute e nodose si affondano nelle nostre città. Per noi ciò che conta è la conta dei morti per poter dare un nome ad una scuola, una piazza dove piazzare un monumento, apologia di morti ammazzati..      
Un Buddha, spento di fede e di speranza, massiccio crisolite in mezzo la tempio. Scoperto da Muhot assieme a tutto il resto di Angkor Wat. Non voglio più sapere di Angkor, né di Suryavarman, ma di questo mozzicone di umanità che struscia le spalle sul perimetro di un Ramaiana lucido di pietra e di speranza. Voglio piuttosto sapere chi era quest’uomo che, di fronte a me, con un arto di legno ed un braccio a brandelli ha ricomposto ciò che resta della sua famiglia dopo la democrazia di Lon Nol e l’uragano di Pol Pot. Chi era costui? Dove viveva e di quale lavoro? E quelli che amava sono gli stessi che adesso fingono essere la sua famiglia? Famiglia poi. No. Famiglia è una casa con un cortile, dei polli, un maiale. Occhi sereni e rumore di treni. Divani: distesi a guardare fu-bol: l’anticipo, il posticipo e quello di mezzo. Gli occhi rintronati, il cervello infantilito, cosce, veline e miss di bellezza, giochi per gioco e giochi per milioni. E voi, al riparo del monsone sotto colonne di mille anni avete una televisione che vi fa sognare belli e vincenti? Oppure voi, clandestini di Ton le Sap, attenti alle reti e alle ghiotte pietanze, riso e pesce secco, sempre uguale menù dell’Indocina. Tu, con le tue carte gonfie di umido, cosa prometti indovino, sotto le radici del Ta Prom? Dove riposano i brutti, i perdenti, laceri, sporchi e cattivi? Dove sono i Videla e i Pinochet, i Massera, i Phalevi, il fondo del fondo del cuore di Noriega, Batista e Fujmori. Nei viali delle democrazie, lasciate per le strade a stelle e strisce fra tanta odorosissima merda. 
Una nuvola naviga per l’Oriente. Comincia sul golfo persico e finisce in Indocina. E’ la nuvola de benessere. Profumo di consumi. Vento dell’Est che gonfia i risparmi di acuti produttori di ricchezza. Piccole borse dei nostri sogni operai, pronte a svuotarsi in un fine settimana al mare. Una vacanza in più, tra corsie di arterie gonfie d’estate. Uomini e donne col dono della parola perché possano nascondere i pensieri, putridi com’è putrida l’aria delle nostre città, che smette, per incanto, in una domenica ecologica. Come a Bangkok, a Saigon, a Giakarta. Uomini e donne, assediati da un fottio di supermercati grondanti prodotti senza sapore pronti, precotti e digeriti, per ingolfare intestini. E’ la nuvola di Bhopal, portata in India perché da noi non ci stava più. Nuvole, vanno, vengono, come recitava il buon De Andrè. Vanno verso Oriente perché lì si cominciò la partita con l’Enola Gay. Quella mattina che fat boy svegliò, tra Hiroshima e Nagasaki, occhi obliqui di donne e di bambini. Perché dall’altra parte del mondo si capisse che teneva il banco e con quali carte. Nuvole come cumuli, idee confuse e molto chiare sul remake della rivoluzione francese. Ma non fummo noi ad insegnarla ai cambogiani questa pagina? Perché la loro non vale? Bella adesso Phonm Phem: libera Manivong dai carri armati ha ripreso a produrre ed a produrre puttane. 
Ed eccole. Fanno la spola tra Vientiane e Bangkok, tra Poipet e Puket o aspettando clienti nei vicoli di Seam Reap. Esili ed eleganti, quasi bambine truccate da adulte. Nessuna è mai passata dal Wat Po, nessuna è forse mai uscita da Surawong. Ragazze da week-end di tutte le sere. Quanta parte di un trattore hai portato al tuo villaggio coi soldi dell’amante di una notte? C’eri prima della guerra o stavi nei canali di Damnuong? Fai le cose delle nostre voglie e noi, adesso, ne parliamo con rigetto. Perché noi, l’Indocina, ce la siamo inventata così a fauci spalancate sulle nostre manie, sogni e bisogni, e l’abbiamo fatta così, con le buone e con le cattive.  
Un grande cartello interrompe il sentiero, avvisa a fumetti, del pericolo bombe. Come urlare, casa fare, chi chiamare. Manca il poscritto: chi ringraziare.  
L’ultima luce sull’Irrawady, trasporta l’anima della foresta. Tronchi di teak, a centinaia scivolano legati l’un l’altro guidati da un vogatore. Il fiume scorre sulla spianata di Pagan, attraversa i bagliori della Shwedagon per l’ultimo saluto. Si trasformeranno presto in tavoli da pic-nic. Immarcescenti cadaveri dei nostri cortili. Hanoi, nella vecchia Hang Gay, un manichino si affaccia sulla strada tra le griglie di una boutique. Indossa un corto abito provenzale. Sostituirà, presto, un sensuale Ao-dai, modellato sul seno e sulle cosce. Sul bordo del lago della Spada Restituita, chi mangia, chi gioca, chi prende il sole. Uomini e donne con gesti misurati, cigolii di risciò. Io, sento ancora le sirene che annunciano l’arrivo dei B 52, biglietto da visita che veniva d’oltre quel mare della mia smisurata ingordigia. A Cholon, tra zippo e ricordi, ancora vecchi souvenir in forma di altimetri, bussole e radiotrasmittenti. Charlie, charlie, tra foreste disossate e risaie avvelenate. Melodie di Tay Ninh, in un tempio dove Cristo, confuso tra Mao e Victor Hugo, affumicati dall’incenso di monaci stranovestiti, non lontano dalla strada per Moc Bai, dove una creatura, bruciata dalla guerra, corre svestita per non trovare aiuto. Muang Xai: i bambini giocano su uno scivolo improvvisato, le capanne si reggono su palafitte d’occasione.  Un villaggio costruito su gusci di bombe inesplose e svuotate.  
Re, principi e regine, messi e rimossi al passaggio delle tante volpi in tante corse di salute, foreste nate sulla sabbia di enormi fiumi, abbandonate come cattiva abitudine, e sostituite da fabbriche di fumo: aiuto che aiuta a cambiare la vita. 
E’ bello seguire i consigli della volpe. Purchè non si sappia che la volpe è perennemente impasticcata. Purchè non si dica che il re è nudo.  
 
INDOCINA 
 
Assòlo di pensieri in abito da sera 
 
Ho una predilezione per questa parte del mondo. Non è un bisogno, non saprei definirlo. Forse fa parte del mio percorso ma, fatto è, che dopo qualche viaggio fatto altrove, sembra che torni il desiderio di purgarmi ritornando ad est. E, ad est, a parte un grande testimone archeologico, c’è tutto quello da cui noi fuggiamo nel senso che, tutto ciò che rifiutiamo, lamentosi in casa nostra, lì c’è. Una sorta di cattiva coscienza, riposta in questa regione ed insensibilmente ignorata, come polvere sotto un tappeto e che, senza pietà, riappare. Riappare eccessiva, rumorosa, fragrante, devastante, penetrante e tutte le altre ante di un grande armadio tuttestagioni. Di quello che c’è, come si usa dire, non manca nulla, anzi, sempre più banale, di quello che c’è, la metà basta. La metà di cosa? La metà della maestosità di Angkor, un luogo che è troppo per guardarlo, pietre che si colorano con la luce di ogni ora del giorno, piove o c’è il sole. La metà del Tonle Sap, profughi di tutte le guerre assediati dall’acqua su palafitte, un colpo al cuore per l’odore di marcescenza dei rifiuti, per la promiscuità di carne umana in attesa di non so cosa. Cioè, lo so, in attesa di chi guarda, com-passione, fruga e scatta foto di varia umanità. La metà degli scarichi e delle motorette che, senza sosta strepitano per la gimcana di Saigon o di Phom Penh sulle quali basterebbe la metà dei passeggeri. La metà dei colori che traboccano dai mercati, pesce fresco e calamari secchi, verde di tutti i toni, spaghetti, diosperi (ma cosa sono i diosperi?) e cicale fritte. La metà della mortalità infantile e delle mine che azzoppano ancora creature che aspettano campi da arare. La metà delle puttane e dei trafficanti di oppio, la metà delle gente, troppa per non rubare spazio alle risaie. La metà di tutto ma, così, solo con l’altra metà, avremmo perso l’Indocina. Nell’altra metà fra tanto, troppo disturbo, il silenzio. Atmosfera di conventi e Budda, orecchie lunghe di saggezza, che aiuta ad ascoltarti. Monasteri, immersi nel dedalo del fracasso quotidiano, ovattati di giallo, nenie ripetute per secoli avvolte da pesanti nuvole di incenso per parole che si sentono dentro. E’ fra queste nuvole pungenti che in Vietnam, come in Laos o Cambogia, il passato è passato. E’ passato il ricordo  dei  sacrificati di My Lai; ma è possibile respirare ancora urla, lamenti e preghiere di una tempesta  che qui macellò innocenti nel 1968? Storia di battaglie passate per Nha Trang, Quang Tri, Khe San, di contadini col fazzoletto a scacchi bianchi e neri; storia di bambini delatori con il mitra al collo sotto un foulard di scacchi bianchi e rossi. Favola di zio Ho che giace imbalsamato ed impotente a sfuggire curiosi che gli ruotano attorno e che da morto non trova più quella pace di legno della casa accanto dove conviveva con la guerra. Favola del fratello number one che, ormai morto, forse non c’era neanche da vivo ma di cui rimane, inequivocabile, il Tuol Sleng, album di famiglia di martiri di una rivoluzione francese orientale che due secoli dopo, appare inutile e con troppo rosso. 
Non ho visto tutto in Indocina. Per quanti sforzi abbia fatto, non è possibile. Non perché mi sia mancato il tempo o la voglia. Neanche la passione. Non a causa di lingue incomprensibili, vecchie, archeologico residuo di sanscrito o nuovo cinese scritto in latino. Piuttosto per mancanza di orecchie, abituate tra gente che parla perché non ha niente da dire, maleducate ad ascoltare suoni e parole da ingoiare in un sorso. Per mancanza di occhi, incapaci di bere il benessere, tenero e malinconico, di chi sta bene anche col mal di stomaco, in un notturno su Bangkok tra motorisciò che sculettano per strade buie di una città trasformata in una giostra per bambini. La montagna dorata del Wat Saket illumina il silenzio dei vicoli sui klong. Il Wat pra Khew lancia le sue guglie illuminate verso il cielo. Nel  cortile del Wat Pho, stupa filiformi prendono il colore dei sogni e i pensieri si sprecano.  
Ma mi resta, e lo porto con me fino al ritorno, il sapore dei nem di Vang Vieng, i più buoni d’Indocina, della nebbia sul Mekong, di una sera in giro per il buio di Luang Prabang, di un tramonto sul confine tra querule nigeriane che hanno interrotto il calare del sole con il frastuono della loro voce, di una zuppa di spaghetti tra le bancarelle sparse di Dan Muong e raccolti in malo modo con le bacchette, il vomito di Hua Lampong, le luci di Path Phong e le lacrime di una bambina che dalla prua di un incerto battello si guarda attorno.  
Attorno, lo scorrere silenzioso e lento del fiume e la piramide del Wat Arun che  si specchia nel silenzio del Chow Praya. Anche di notte scorre trascinando con sé giacinti d’acqua. Ancora adesso e non lo vedo, perché, senza sosta, scende a trovare la sua tranquillità. 
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