Quanto mi manchi 
1° 
Devo smaltire la tenerezza che mi hai lasciato negli occhi, occhi di smeraldo dentro i capelli, sottili come i pensieri di un bimbo che si regge su gambe di fili, neri come è nera una notte quando manca la luna che trasforma i colori. Col cielo grigio ti vedo nei campi a senape gialla, nel riso ed il miglio di tutti i toni del verde, nei volti tatuati ed assieme ai sari, in tutta la musica dell' Orissa. Mi manchi coi tuoi modi sostenuti, la tua maniera di ridere, il tuo stare in piedi contro lo sfinimento, la tua intolleranza e tutti quegli assurdi difetti che mi hanno fatto innamorare. 
Ti ho vista assediata a Calcutta, delirio urbano. Assediata nel cuore di ricchi e poveri, bambini, vecchi, donne; uomini stanchi di fare da cavallo e uomini obesi dal troppo lavoro. Uomini, uomini e uomini a Chadni Chowk, BBD Bag. Uomini a Seldah ed ad Howrah, sopra e sotto il ponte, tra i fiori dell' Hooglay ed a Manikarnika tra morti da cremare. In attesa di un treno, wallah, avvolti da pesanti, fagotti ingombranti. Il ponte, è un giaciglio di poveri. Ma non vedo i miserabili. Anche se ormai qui, come altrove, c'è spazio pure per loro. 
Mi manca lo sciame di bambini di ogni età mentre raccoglie ciò che può. Cocci di vetro e vecchie lamiere, resti devastati di un uragano passato. Armati di ascia, liberano strade da legna che domani arderà. Il ciclone: un violento schiaffo stende la chioma  
dei grandi alberi che, adesso, sembrano pennelli e come pennelli hanno spazzolato case, capanne e piccoli templi dove c'è  
ancora chi si ostina a pregare. Tu sorridi perché l'evento è la vita e con questa la morte. 
Il treno, come un tamburo, batte un tempo nel tempo che non c'è. Sei davanti a me e ti guardo: nei bagagli malfermi ed esposti teneramente. Fuori, la campagna indiana è dolcissima. Fresche pianure verdi che il sole del tramonto trasforma in lamine d'oro.  Qua e là miti colline, aspri gruppi litici di arenarie sbriciolate dal calore. Fuori dal frastuono delle città dove l'aria, irrespirabile, è una nuvola di polvere e fumo, i campi sono coltivati col tuo silenzio. L'aratro a chiodo trascinato dai buoi assorbe un contadino per lunghe ore della giornata. A gruppi si raccolgono sotto un albero, accovacciati a parlarsi di gesti. Ti vedo nel mucchio donna, per quanto sei sola. Lenta e solenne dividi la fatica del quotidiano portando ceste di vimini, brillanti vasi di ottone, legna da ardere e panieri di frutta. E nel villaggio, i tuoi bambini giocano senza confini. Piccole mandrie di bufali, cortei di oche, capre, cani addormentati alla luce delle prime fascine incendiate per aspettare la sera. Nella penombra i fuochi domestici, piccole stelle rosse nel mare di forme indistinte. Ad Agra, nel cuore di questa civiltà contadina, il Taj Mahal, il più bel ricordo d'amore del mondo. 
Calma che non dà spazio ad altre miserie. A Bubaneshwar, in una stazione assalita dalla tempesta, il dono di un fuseau, rende un bambino cifotico ebbro di apparenza. Lo indossa, lo riassetta per la sua misura, si mostra. Domani, o forse stanotte, non lo avrà più. Qualcuno glielo porterà via. Ma per una volta ha sentito addosso al suo misero corpo un profumo diverso e, penso, gli stia bene così. Anche lì, incerta, c'eri tu ed io ti guardo con le idee confuse come davanti alle folle di infelici girovaghi accovacciati davanti ai portali di legno e di bronzo di un tempio che apre le porte del regno dei Cieli. Ma, nell'attesa, vivono quest'inferno quaggiù, forse chiedendosi perché a loro è toccato così. Così come ti vedo stavolta India, principessa di esseri umani in briciole che, aspettando un chapati si donano al miglior venditore che offre il mercato degli dei. 
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2° 
Mi assali i sensi con la tua intimità, l'aggressione dei tuoi rossi opposta al grigiore del nostro costume, alla monotonia  delle nostre abitudini che mi intristisce. A Parigi, a Londra o in Brianza, dove la nebbia grassa come il latte spegne luci e sapori, i lunghi capelli raccolti alla nuca non avvolgono insieme una collana di fiori aggiungendo colore al colore, come fai tu. 
Mi manchi nel frastuono delle tue strade, i tuoi veicoli che sembra non siano mai stati nuovi. I disegni su macerie in movimento che percorrono come schegge impazzite un varco che non sempre si apre al loro passaggio tra venditori, ciclisti, pedoni, vacche, bufali e carretti. Autobus sconfortanti dai sedili alle griglie di ferro che sostituiscono i finestrini, che macinano strade ancora più scoraggianti: un insieme di buche con attorno mozziconi di asfalto. Strade handmade di lavoro femminile, teste usate come mezzo di trasporto della ghiaia. Donne, operaie e no,  figure geometriche. Erette in movimento, sul capo dei vassoi in metallo con la breccia che scaricano con un gesto a ventaglio qualche metro più in là. Chine, ad angolo retto, scelgono i ciottoli che lanciano altrove senza scomporre l'armonia della figura. Nel riposo, sedute sui talloni, formano un insieme fetale, le braccia abbandonate sulle ginocchia, le mani raccolte nei gesti, lunghi, sottili, musicali. Il tutto condito in salsa di sari di mille, forti colori. Le stesse movenze nelle risaie, sull'uscio delle capanne, tra le venditrici di fiori, lungo i vicoli del villaggio e al mercato, tra le ceste di frutta. 
Ti ho rivista in città, immenso agglomerato di case basse, piccoli templi, torri, minareti, capanne e tralicci di bambù. Polvere e fango a seconda delle stagioni, rivoli di liquami, scenario dove si mescolano in uno eccitante sovrapporsi di musica e frastuono fabbri, falegnami, sampietrini, campanelli e clacson tra babbuini, scoiattoli, vacche, capre, topi e qualche elefante. Nelle strade, una diversa dall'altra che si assomigliano tutte, i bazar, mercati della frutta, labirinti di ombre, luci e profumi. 
Mi emoziono a guardarti, perché tutto è più grande. Le pianure, interminabili pantani a risaie. Le montagne, tetto del mondo. I grandi fiumi che nascono nella casa di Dio per terminare in delta sconfinati dove si vive per l'acqua e, sovente, di essa si muore. Dove gli uomini sono piccoli come scoiattoli oppure grandi ed austeri come fortezze. Donne, regine di legno con i piccoli appollaiati sul fianco e  ragazze che conoscono il più bel sorriso del pudore. 
Mi innervosisco a guardarti per la burocrazia più interminabile e la cortesia più disarmante, quanto la tua corruzione. Ma hai anche i tramonti più malinconici e le albe più suggestive, quando i pescatori di Gobalpur aspettano un gesto da te; dove le piogge sono imponenti e devastanti come la siccità; dove può esserci la ricchezza più smodata e la povertà più iniqua. Dove, per nascere, occorrono tre moduli con la carta carbone, messa a punto come può un indiano, su un grande registro che nel passare di mano in mano diventa sempre meno che carta da macero. E fare altrettanto per morire, in un posto dove sempre più si potrebbe risparmiare tale lungaggine compilando contestualmente l'uno e l'altro. Perché anche a Chowrenghee si muore tanto in fretta che la burocrazia non fa a tempo a correre dietro a ciascuno. E, sempre forse, è per questo che tanti non appaiono neanche di esserci. 
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3° 
Ti guardo ed è come se vedessi un pianeta dove tutti sono costretti a convivere. A Madras come a Nairobi o a Manhattan. Miliardi di uomini che sopravvivono nell'indigenza delle squallide periferie di Città del Messico, Lima, Milano, separati dalla opulenza delle quinte strade o dei boulevards parigini da un invisibile diaframma che si assottiglia sempre più, stringe la morsa attorno a chi ha sciupato da sempre. Questi abitano i quartieri dove sconcerta la violenza e inorridisce lo sporco; dove si separa diligentemente la plastica dal vetro e si ricicla con clamore la carta. Ma poi, nel silenzio degli affari, tutto si trasferisce dove non c'è tempo per occuparsi di ecologia perché è tra i rifiuti che si trova da vivere. Nei nostri serragli, profeti e sacerdoti governano gli spazi, trascurando il fatto che gran parte di questi sono vissuti da un oceano di intoccabili che, gomito a gomito, non possono dividere il costume dalla sopraffazione, i consumi dall'inquinamento, il fatiscente dal quotidiano, perché si riduce, giorno dopo giorno, il margine di vivibilità.  
Sei un colpo di frusta che colpisce il cuore e la mente di chi vuole ascoltare. Attraversi tutti i sensi e bisognerebbe inventarne altri per colmare il bisogno di tradurre le percezioni.  
L'essere umano davanti a me che, teso come una corda, conduce la carriola dove io sto seduto malamente, mi offende. Ogni sua pedalata trasmette la sofferenza dei suoi sforzi. Io posso lasciarlo vivere con il mio compenso o lasciarlo andare per il mio pudore. Tuttavia il cuore di quest'uomo da soma cederà, o di fatica, o di fame. Attorno, uomini e donne prostrati dagli stenti, tendono la mano sotto gli occhi di non so quale dio. Trascorsa tanta storia, l'uomo continua ad umiliarsi davanti a se stesso. 
Sono tornato in altri luoghi, in altre città. Mi capita di dire: faccio un salto a Marrakesh, a Istanbul o da qualche altra parte. Ma non l'ho mai detto di te, India. Ci sono tornato, ma con religione. E tutte le volte che sono ripartito da te pur continuando a non comprendere la confusione di caste, o il pantheon in cui sei immersa, mi è parso che qualcosa si staccasse dentro. E non è mai successo lasciando il bordello di Jamaa el Fna o di Eminonù. 
Forse il continuo richiamo: sahab, sahab, la perseverante insistenza dei mendicanti, oppure lo strillare, sui treni e nelle stazioni, come fossero corde di sitar, dei venditori di somosa o di chai. Forse la religiosa prostrazione della tua gente davanti ad un sasso o ad un albero coi segni di Shiva e odoroso di incenso. Ma mi rimane in bocca un sapore di spezie che prende la gola e un colore che ferisce gli occhi. Gli occhi con i quali ti guardo. Mi manchi, nel bianco e nel nero, luce ed ombra. Ti ho vista, rivista, goduta mentre mi stancavi, mi innervosivi con la tua distanza e mi esasperavi per il tuo pudore. 
Forse è solo il rimpianto degli anni. Oggi ho i passi pesanti, resisto all'acqua delle fontane, non saprei bagnarmi sotto il monsone, porto le scarpe e non riesco a dormire in un charpoy, il letto intrecciato. Mi affatica la miseria e i bambini che tendono la mano mi intristiscono. 
Ma mi rimane in bocca un sapore di spezie che prende la gola e un colore che ferisce gli occhi.  
Il bianco e il nero, luce e ombra dell'India. 
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