ANDE  
pensieri per Qos'qo  
Forti i colori di Pisac e di Chincheros, tra le pietre accatastate di Saxwaman o i filari di Ollantaitambo, pietre immerse nella musica di zampogne andine mentre dalle nuvole scende un requiem. Requiem per Tupac Amaru, straziato nella Plaza de Armas, ombelico di un Qos' ko, ombelico del mondo. Nei vicoli ribattezzati con la memoria Inca tra Procuradores e S. Catalina, dietro la Compagnia o nel labirinto di S. Blas, intonaci bianchi di calce e finestre intense di verde e di blu, case spagnole su mura di pietra tirate a squadra e sciuscià, corre l'odore del lama e delle mante tessute a mano. Ma l' America è lontana, dall'altra parte della luna, cantava Lucio Dalla qualche tempo fa. Dall'altra parte di questa realtà. Qui, dell'Amerika ci sono solo grassi americani, carichi di borsoni da viaggio dai quali fuoriescono lunghi obbiettivi e argentee telecamere. E' l' America che va al Machu Picchu in elicottero, con vista dall'alto, che non passa per S. Pedro, che non mangia l'anticucho che la segnora cuoce in un barbecue improvvisato all'angolo di Triunfo. Dell' AmeriKa arriva l'azzurro california delle sigarette Hamilton, perchè le Inka, quelle forti, sono tropppo popular. L' Amerika è quella di Fujmori, da sempre eletto presidente e, come Belaunde Terry, re di questa terra. Dall'altra parte della luna, c'è l'America che incalza il terrorismo dei Tupamaros, che inquieta Ayacucho col Sendero Luminoso, perché sia salva la democrazia dell'abbondanza.  
Non oziare, non mentire, non rubare: sussurrano i contadini, in un quechua che non vuol morire, continuando a recitarlo nel lamento di un saluto. Quechua, dialetto arcaico elevato alla dignità di lingua in un momento di esaltazione culturale che unifica tutte le tribù della sierra sotto la bandiera dell'arco Iris. Fantasma di un impero, il Tiwantinsuyu, fatto a pezzi da due uomini, Pizarro e Almagro, ed una corte di personaggi di cui è rimasta memoria solo per gli storici, ma non per questo meno feroci e determinati. Un' epopea di scorribande per due uomini due, che scardinarono una delle più grandi civiltà crisolitiche, dell'oro e della pietra. Due figli di nessuno mossi non da motivi storici, di cui non conoscevano l'entità, ma dal desiderio sfrenato di ricchezza e di consenso presso quel labirinto che era la corte di Spagna e da cui attendevano una paternità.  
Non desiderare la roba d'altri: nella penisola cattolica di Isabella, era l'articolo mancante del decalogo, per chi, vivendo ai margini del regno, poteva, traversando il Grande Mare Oceano, fare il salto. E al seguito di cavalli e cavalieri, c'era l'Europa cristiana, fatta però di gente che la storia la conosceva e di questa conoscenza sapeva farne buon uso. Cristiani che, chiusa ormai definitivamente ogni velleità verso l'Oriente dove si era consolidato l'Islam, guardano, avidi, un mondo vergine, oltre Oceano, che li accoglie con uno stile diverso e distante dal modello del nostro tardo Medio Evo, al quale costoro erano abituati. Ma nel bagaglio di Pizzarro e Almagro non c'è solo ferro, cavalli, malattie e devastazione. C'è una parola che ancora oggi fa fatica a morire: integrazione. Società umane che fino a quel momento avevano vissuto, com'è ancora oggi, con il culto della Madre Terra, la Pachamama, e nella coscienza della loro unità con questa, si ritrovano un nuovo Dio in cui sono obbligati a credere, pena la morte. Uomini che avevano convissuto senza schemi politici, con criteri anarchici e privi di caste, si trovano a fare i conti, in casa propria, con le nostre leggi e con il nostro censo. Popoli che davano un valore simbolico al loro manufatto, scambio cerimoniale più che economico, apprenderanno l'uso del denaro, che non possiederanno mai. E' a questa gente che l'Europa, bianca e cattolica, insegnerà l'articolo dimenticato del decalogo: non desiderare la roba d'altri.  
L'avventura del colonialismo comincia. Da secoli imponiamo integrazione: nel nostro costume, nel nostro schema politico, nel nostro modello sociale ed economico. A noi non viene chiesto di integraci nelle abitudini degli altri Paesi e, in ogni caso, vivremmo ciò come un oltraggio.  
In quel tempo, non è l'Islam ad impedire la nostra penetrazione in Oriente dove, nel nome di un Dio clemente e misericordioso, viaggia a grandi passi fra masse di diseredati assetati di dignità umana. Allora come oggi è piuttosto la nostra maniera di porci verso gli altri a generare il conflitto ed il rifiuto: noi vogliamo il pianeta sconfitto ed integrato ai nostri schemi, come vollero Pizzarro e Almagro. Gli altri parlano di coesistenza.  
Invocando il tuo nome mi avvicino a te, Pachamama  
con le ginocchia insanguinate arrivo a te, Pachamama  
spargendo fiori mi inchino davanti a te, Pachamama  
Signore onnipotente,  
tu che vedi tutto, Pachacaman  
lago celeste, vaso d'argento, Pachacaman  
dacci il calore del sole, fonte di vita,  
e con l'acqua della tua pioggia,  
bagnaci, Pachacaman.  
Dei nostri orfani,non ti scordare.  
E' la Kkoccho a Pachamama, la preghiera quechua alla Madre Terra. L' ho appresa dove l' equatore divide in due la terra, dove sette vulcani fiancheggiano la carreggiata che corre sulle Ande.  
Ecuador, spartiacque del mondo, diviso tra isole remote, sierra e foresta impenetrabile. L'orizzonte pacifico delle iguane al sole, dei lenti ed antichi carapaci, dei grassi, indolenti leoni marini, rossi granchi tra le onde trafitte da sule e cormorani.  
Felci e ceibu nascondono i versi dei tucani, frugivori che contendono alle scimmie germogli e bacche, mentre il tempo, quello che conosciamo noi, non c'è. Lo Huaorani parla con la foresta, usa segnali che io non so usare, trova le foglie che io non so toccare.  
Qui, c'è il cuore lacerato della terra: Tungurahua, Cotopaxi, Chimborazo...ferite da cui sgorga paura e lava, calda e rossa come sangue mediterraneo che non perdona il furto di una mela acerba e lo ripaga distruggendo un campo di grano maturo. Ma tu, Pachamama, madreterra, dove sei? Tra i colori di Otavalo, tra le nebbie della sierra, nella fossa di Quillotoa dove nuvole e cielo si confondono dentro i bordi di un cratere. Madreterra negli occhi affaticati sporgenti da un sombrero di feltro, nelle mani di un bambino avvolto da un poncho rosso o blu, nella treccia di un indiano, nelle perle dorate al collo di una contadina. Madreterra che accogli la pioggia di lacrime di donne sottomesse, che bagna il selciato dei vicoli di Latacunga, o le scintillanti vetrine della nuova Quito.  
Ma, in un mondo disattento all'innocenza violata dove gli occhi hanno perso la serenità, Pachacaman si ricorderà degli orfani e di chi ha perso la sua bimba innamorata?  
Anche se noi, da questo lato della terra non riusciamo più ad avvicinarci a te, Pachamama, spargendo fiori e con le ginocchia insanguinate.  
Da questo lato della terra la meridiana non ha due facce, come a Tilipulo, ma segna l'ora di un sole che guarda sempre dalla stessa parte.  
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