Senegal e Guinea Bissau: uno scampolo di Africa che ho visitato nella metà degli anni ottanta. Contrariamente alle mie abitudini, non mi è più capitato di tornarci. Nel 2000 ho visitato un altro pezzo di Africa riportato in questa collezione, il Gabon. Ma l’insieme, è un po’ poco per trarre delle conclusioni. Tuttavia qualche considerazione si. A parte il caso Senegal, gli altri due Paesi soffrono, per quello che ho potuto vedere, della stessa malinconia. Finita l’avventura della colonizzazione, francese per il Gabon e portoghese per la Guinea, l’umanità di questa Africa si è trovata senza alcuno strumento per riprendere la propria Storia e proseguire. Immersa in un acquitrino, la Guinea vive con le regalie delle caritatevoli imprese europee; senza un sistema di comunicazione, se non le piroghe, senza infrastrutture portuali, privo di una agricoltura se non razionale almeno di sopravvivenza, aspetta che altri, benevolmente, se ne occupino. Purtroppo, come sappiamo, l’aiuto o l’interesse che sia, scatta solo in presenza di un utile e qui, a parte le foreste di mangrovie, non c’è altro. Il Gabon deve invece la sua stabilità e relativa ricchezza alla mancanza di demografia. Foreste inespugnabili erano il riparo di qualche centinaio di gruppi di pigmei. Ormai sedentarizzati, questi uomini neolitici, vivono come straccioni ai bordi delle grandi piste dove scorazzano i camion del trasporto dell’Okumè, alberi che si alzano per cinquanta o sessanta metri e che, inesorabilmente vengono abbattuti per farci multistrati. Eppure, questi uomini, ormai ridotti di numero e di interesse, conoscevano i segreti della foresta, delle piante e della caccia primitiva ed economica. Oggi sono terreno per l’ebola un virus che più dell’AIDS, miete, assieme alla malaria, questo brandello di umanità. All’inedia di questi insediamenti che non hanno più neanche un’architettura originale, si contrappone il fragore di Libreville, unica vera città, dove il commercio di diamanti gonfia i redditi di pochi ed esaurisce le speranze dei molti e dei molti emigranti dal vicino Camerun e Guinea equatoriale. Tra queste foreste e per questa gente, Albert Shweitzer creò Lamabrenè.  
Dakar è il porto dell’Africa. In tutti i sensi è così che si presenta il Senegal. Dalla vicina Goree, partivano i Mandinga per le Americhe e la casa del dolore lo ricorda ancora. Oggi è qui che arriva tutto l’aiuto occidentale per l’Africa della Guinea, del Mali, Mauritania ecc. Eppure la presenza più consistente di negritudine in Europa viene da questo Paese. Evidentemente non è una questione di aiuti: penso che neanche Senghor sia riuscito a far comprendere quanto fosse importante l’essere Africano e quanto orgoglio poteva starci dentro questa idea. Sempre più divisi da un fiume che fa anche da nazione a sé, il Gambia, il Senegal del Nord e la Casamance del sud si fanno la guerra perché non si riconoscono neanche nella lingua che parlano: il woluf ed il diolà.  
. Camerun: Un triangolo di terra che si insinua tra la Nigeria ed il Chad, definito nonsoquandodachì, dove si parla in francese e per metà in inglese, coniugato in fulbè e scrivendo in bamun. Nei mercati, le etnie si incontrano: le acconciature, l’abbigliamento che, soprattutto le donne, mostrano, danno sapore a questo pezzo di africa. A Ngong, come a Mokolo, a Tourou e via dicendo, nelle spianate dove si svolge un giorno per settimana, il mercato, è esplosione di colori, gente, merce, ecc E’ incredibile cosa non si riesca a vendere o, meglio, ad offrire. Più che la varietà alimentare, poche spezie e molto miglio, tra pesce affumicato e carne di zebù, ciò che sorprende sono gli abiti dimessi. Appesi, c’è di tutto, dal romantico impermeabile di Hanfrey Bogart, a vecchi abiti da sera che, sembra, siano andati a vivere la loro pensione in Africa.  
Il villaggio: le capanne circolari con un cono di paglia per cappello, bimbi e capre, razzolano negli spazi dove l’erba è più diradata. In giro per l’abitato si assapora dall’interno l’atmosfera. Le galline, i bambini, il canto del muezzin che segna il conto della giornata. Piccoli focolai domestici, anziane accovacciate con la pipa in bocca. Attorno, il silenzio che precede il sonno. Domani? Ancora il campo, il mais ed il sorgo nel mortaio, come ieri e come ancora dopodomani.  
Un’idea dell’Africa moderna e metropolitana è il mercato di New Bell che adesso si chiama Central Market, a Douala: credo che ricordi una delle sette piaghe d’Egitto.  
Rumsiki, nella regione di Kapsiki, è un’insieme circondato da faraglioni di arenaria conficcati nel suolo. Qui conosco Don Chishiotte. Tipo eclettonarcoide, ha un grande sogno: salvare l’Africa. Ne parliamo a cena. Biasima l’infanzia che, correndo dietro al turista, cerca di raggranellare un cadeau umiliando se stessa e trascurando qualunque progetto che la porti alla coscienza di sé. Credo che tra le righe del suo pensiero si nasconda, giustamente, un rimprovero a quella fascia di turismo che, colto dai sensi di colpa mentre sciupa risorse anche in questa terra, educa all’elemosina i bambini.  
Un fabbro di villaggio prepara arnesi da lavoro con mozziconi di lamiera. Molto vicino alle fornaci neolitiche, l’aria viene spinta sui carboni con due soffietti di capra. Alla monotonia del lavoro supplisce il ritmo che il soffiante imprime al mantice, rendendo l’attrezzo un improvvisato strumento musicale. Tecnologia elementare ma efficiente. Un forno in terra cotta e musica, davvero abile! L’idea di riciclo che si vede da queste parti è molto distante dalle nostre speculazioni ecologiche; il clima psicologico di empatia che si crea tra artigiano ed osservatore è ciò che questi Paesi lentamente perdono, scarrocciati dalla pressione interessata che noi esercitiamo su di loro. Forse era questo il sogno di Don Chishotte o, forse, è il motivo per cui ha scelto per sé questo nomignolo. Il suo mulino a vento è il paesaggio che cambia ma, senza la banalità di un luogo comune.  
Il fiume Logone separa il Camerun dal Ciad ma, come succede in Africa, nessuno se ne cura e forse tanti non lo sanno. Gente e masserizie si spostano sulle piroghe tra una riva e l’altra e le etnie del Ciad invadono e si mescolano con questa parte del Camerun. La prospettiva delle piroghe, lance conficcate nei riflessi del fiume, le facce scarificate di uomini e donne come maschere Ba-songwe, i bottoni sulle labbra, tutto è in movimento.  
A Yaounde, domenica, trovo il tempo di andare a sentire la famosa messa nella Chiesa di Melen. Assisto alla cerimonia con cori, balli e balaphon, messe cantate in tutte le lingue. Il Dio dei bianchi parla in fulbè, peccato che non ascolti, per una volta, quanto in fulbè, questa gente avrebbe da dirgli.  
I venditori del mercato dell’artigianato hanno della bella roba d’antiquariato. Mi impossesso avidamente di pezzi d’Africa che qui, in Africa, non interessano più a nessuno.  
I feticci Yorouba e Mayombe sono stati sostituiti da altre più accattivanti figure. Le maschere Fang hanno dato l’ispirazione ai nostri Picasso e Modigliani, dalle Basonge è nato il cubismo. Dai bukaros nasce l’architettura biologica, e tante cose ancora. Ma in Africa, quella che ho vista io, non lo sanno. Sembra che la corruzione derivi dai danni della schiavitù. Noi lo sappiamo, ma in Africa no e non hanno motivo per crederci. Noi sappiamo dei danni che abbiamo fatto in tutti gli angoli della terra perché, in questo non abbiamo privilegiato solo l’Africa. In Africa, o per lo meno in questa parte di Africa no. L’Africa non ha più paesaggio, gli animali sono come in un grande zoo, e gli uomini alla deriva. Perché l’Africa, e qui siamo stati e siamo selettivi, la conserviamo così per dare un ammortizzatore ai nostri bisogni. Un continente che ha il torto di avere le materie prime a cui gli africani sono disinteressati e che servono a noi ma non a loro. Risorse che ci costringono a fare, tra noi, una guerra infinita per accaparrarcele. Guerra tra ricchi ma nella quale perdono i poveri. Come in un grande supermercato senza vigilanza: ruba chi può. Ruba per rivendere ad altri. E, fra gli altri anche a loro, in Africa. Un continente senza il quale una miriade di organizzazioni non governative, sempre alla ricerca di budget per salvare il mondo, rimarrebbero senza risorse e con loro, e con buona pace di tanto volontariato più tricotico che caritatevole, tanti dei nostri canali morali. Un continente sotto i riflettori per parlare di Aids piuttosto che della malaria che uccide milioni di esseri umani ma si cura con molto meno, purtroppo. In Africa c’è un mondo di storia che nessuno conosce o vuol conoscere. A partire dagli africani. Il meglio di quella storia si conserva da noi ed è purtroppo, ancora oggi, per soli, pochi iniziati. Ciò che chiediamo all’Africa è di raggiungerci, non importa con che mezzo purché sia veloce e di dimenticare in fretta gli Ashanti, e i Baulè. Si chiama integrazione. L’Occidente nel tempo, ha lasciato le sue tracce odorose in tutte le terre emerse ma sono tanti, ancora e per fortuna, a voler ricordare se stessi: dalle Ande all’Indocina. In Africa, o per lo meno in questa parte di Africa no, non sempre, per lo meno. L’urbanizzazione massiccia, trasforma le città in maleodoranti baraccopoli senza speranza e colme di rifiuti, i nostri. A causa del mosaico delle lingue, la comunicazione metropolitana, a partire dai media, non può che avvenire in una lingua straniera lasciando perdere così l’ ultimo patrimonio culturale rimasto: la lingua. Già fragile tesoro in quanto solo orale, non trasmetterà più la magia delle favole che i griot narravano di villaggio in villaggio e la fine del mito è la fine della Storia. Amo la diversità perché in essa ci trovo il motore del mondo. In tanti, su questo stesso pianeta se ne sono accorti. E i tanti non vivono in quell’Africa sempre più globalizzata dalle nostre democrazie, lontana dalla nigrizia che si conserva solo nei nostri musei, curata da alcuni e talvolta guardata da altri con il sospetto dell’infezione.  
E’ la mia idea dell’Africa e sono pronto a metterla in discussione, ma mi servono le prove e, fin’ora, ho solo le prove contrarie.  
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